Il Ballo in maschera
Roma, Febbraio 1859
Ho
ritrovato questi pochi fogli ingialliti tra le cose di mio padre, scomparso un
mese fa. Costretto mia malgrado a mettere le mani tra i suoi ricordi, conservati
in una vecchia cassetta di legno, ho ripercorso molte tappe della nostra vita
insieme ma anche quelle a me estranee, quando ancora dovevo vedere la luce. Così,
tra vecchie foto in bianco e nero, appunti di lavoro, biglietti affettuosi di
mia madre e miei disegni di bambino, ecco emergere anche questo scritto di un
mio bisnonno. Figura mitica, di cui in famiglia si raccontavano simpatici aneddoti,
ma così lontano da noi da restare col dubbio della sua reale esistenza. Il nonno
Vanni, così come lo chiamava mio padre, violinista
all’orchestra della Scala prima del pensionamento, doveva essere stato un uomo
divertente, colto e forse romantico. Ed è strano come il termine bisnonno si colleghi
inevitabilmente all’idea di un vecchio, come se i nostri avi non abbiano avuto
mai una giovinezza, non abbiano avuto le loro avventure, non abbiano amato chissà
quante volte come noi, e fatto le loro brave cazzate. Aneddoti
a parte, tramandati da mio nonno e da vecchie zie ogni volta con qualche variazione,
di lui sapevo solo che, dopo la morte della moglie, era stato accettato alla Casa
di riposo per musicisti di Milano, quella creata da Giuseppe Verdi. E lì poi era
morto guardando il suo violino ormai appeso al muro. Delle sue vicende di giovanissimo
maestro di musica a Roma, mio padre non
mi ha mai raccontato e ora mi resta il rimpianto di non poter commentare né con
lui né con zie sopravvissute, il contenuto
dello scritto ritrovato, scavare nel nostro passato familiare per ripescare
altri ricordi dimenticati. Che sia anche io un
romantico come il nonno Vanni? Può darsi. Forse per questo non ho voluto riporre
i fogli ingialliti insieme al resto nella scatola di legno. Ne rendo pubblico
il contenuto, da me arricchito da note a piè di pagina, come omaggio mio e della
mia famiglia all’imminente anniversario dell’Unità d’Italia.
Casa di riposo per musicisti Giuseppe
Verdi Milano
1907
Grazie
ad un paio di lenti nuove di zecca, regalatemi dall’amico Mario,
ora posso finalmente dedicarmi alla scrittura. Da giovane mi piaceva scriver poesie
in rima, ma lo stato della mia anima non è più quello romantico e gagliardo di
un venticinquenne. E non so se sia cambiato
a causa dell’età o pei troppi bei ricordi che sbiadiscono il presente. Perché
io mi sento ancora quel giovanotto che con il suo violino suonava in teatro le
musiche consentite dalla censura, e poi sfidava la guardia papalina accennando
note di inni patriottici. Sventatezza della gioventù! E insipienza degli sbirri,
che di musica non ne capiscono una mazza! Ma
ecco quel che ho da raccontare: la mitica prima de Un Ballo in maschera,
splendida opera del maestro Verdi che in quel lontano 1859 venne a Roma, messa
al bando dal San Carlo di Napoli dove la censura borbonica era peggio di quella
di Pio IX. Evento rimarchevole in sé, ma anche perché ebbe un inaspettato e storico
corollario di cui ben pochi sanno. Dieci
anni erano trascorsi dai giorni esaltanti della Repubblica romana
e dal suo tragico e rapido epilogo. E Roma di nuovo era precipitata nella sua vita pigra e indolente, su cui un vento
sciroccale perpetuo aveva piombato una
cappa irrespirabile di grigiore, come
a espiazione dei gravi peccati commessi. All’epoca,
giovane maestro di musica e violinista, da qualche anno diplomato al liceo di Bologna grazie alle intercessioni (e ai
denari) di uno zio pesarese amico d’infanzia di Giacchino Rossini, ero al soldo di quel mezzo brigante di Vincenzo
Jacovacci, l’impresario
che a Roma faceva e disfaceva e che solo un Lanari
era riuscito a superare in capacità organizzative. Jacovacci,
chiamato “sor Cencio”, era una specie di fenomeno e bisognava prenderlo con i
suoi pregi e tutti i suoi difetti. Che consistevano soprattutto in una biblica
tirchieria e in quella capacità, tipicamente romana, di apparire un cialtrone
anche quando riusciva in imprese impossibili. Ma era un grande conoscitore di
musica e di teatro e amava in particolare le opere del maestro Verdi di cui aveva
portato a Roma nel ’53 l’ancora inedito Il Trovatore, con l’enorme successo
di pubblico e di critica che sappiamo, ma anche con le insoddisfazioni di chi
era incappato nei suoi difetti. Non
so bene se Jacovacci si potesse definire un seguace degli ideali dell’Italia unita.
Come tutti i romani stava ben attento a non sbilanciarsi, continuando ad adulare
il Papa e la sua corte così da ottenere i sussidi straordinari necessari per gli
allestimenti teatrali. C’era però in quegli anni, sotto l’apparente calma e indifferenza
per gli eventi che accadevano nel resto d’Italia, qualcosa che ribolliva sotto
la cenere, ma così impalpabile da far dire che a Roma sembrava di vivere come
in un sogno, in una realtà sospesa nel tempo e dove qualsiasi fatto vi cadeva
senza rumore, come nell’eternità.
Nel ‘53 ancora non sonavo
per Jacovacci, ma ero andato ad una delle
repliche de Il Trovatore al Teatro
Apollo, che all’epoca
era il tempio della musica, dei cantanti e dei musicisti romani, e non solo. Il suo pubblico era quanto mai
eterogeneo: aristocratici, borghesi e popolani che approfittavano del Carnevale
per darsi alla vita mondana e ai festeggiamenti, vietati durante gran parte del
resto dell’anno. E il sor Cencio era, per quell’occasione, sempre alla ricerca
di un’opera che riempisse il teatro per tutte le repliche e che gli portasse bei
guadagni. Ci pensava poi il povero Giovannino, il suo capro espiatorio, a prendersi
gli insulti e le rampogne degli abbonati ritardatari che trovavano il proprio
palco occupato da paganti dell’ultima ora! Per
il Carnevale del ’59 non si sapeva bene quale spettacolo avrebbe allietato i romani perché la nuova opera verdiana, dopo i guai con
la censura borbonica, che aveva fatto irritare grandemente l‘autore e provocato una causa in tribunale,
ancora ai primi dell’anno era nelle mani dei censori ecclesiastici coi
quali il sor Cencio aveva continui abboccamenti, nel tentativo di evitare ulteriori
stravolgimenti della storia che gli avrebbero fatto saltare l’affare, visto che
aveva già scritturato i cantanti e dato incarichi per la realizzazione delle scene.
Trovato finalmente l’accordo
(il regicidio in Svezia si trasformò nell’uccisione di un Governatore nella Boston
della fine del ‘600) fui chiamato dal sor Cencio insieme con il resto dell’orchestra, per cominciare le prove
di questa nuova opera che dal titolo iniziale Gustavo III era diventata
Un ballo in maschera, passando per non so quanti altri titoli a seconda
della censura cui era sottoposta.
Non nascondo che l’emozione
fu grande. Per la prima volta mi sarei trovato al cospetto di quel genio della
musica di cui conoscevo tutte le composizioni e di cui cantavo a mezza bocca le
arie dei cori che ormai erano divenuti inni rivoluzionari. Si
mise in moto, quindi, la macchina teatrale del sor Cencio che, come sempre, era
accompagnata dall’arruffio di chi pretende di nascondere quelle che a Roma chiamiamo
“magagne” e che in questo caso riguardavano soprattutto i cantanti. Anzi, le cantanti.
A sostenere la parte del paggio en travesti era stata scelta una giovane soprano
alla quale non mancava tanto la voce quanto la tecnica e il brio necessari, e
nei panni di Amelia c’era una sgolata Eugenia Julienne-Dejean reduce da un clamoroso
fiasco a Trieste. D’altra parte è pur vero che non s’era ancora vista un’opera
che richiedesse ben cinque protagonisti in scena e avesse la necessità di tre
voci femminili (con quella di Ulrica) tutte dotate e di diverso carattere. A reggere le sorti di questo capolavoro, che tale rimase nonostante
le “cagne latranti”, c’erano però il maestro Emilio Angelini sul podio,
il grande Gaetano Fraschini
nella parte di Riccardo e Leone Giraldoni in
quella di Renato. La messa in scena si doveva al bravo e fidato Giuseppe Cencetti.
E la musica! La musica potente e per la prima volta davvero giocosa e brillante,
talvolta quasi comica, come non s’era
mai sentita, neanche ne La Traviata, e così lontana dall’idea di dramma e melodramma,
senza mai una sbavatura e perfetta nel suo impianto dalla prima nota fino all’ultima!
Una grande opera italiana, tale da far crescere l’orgoglio di voler essere italiani.
Il maestro Verdi, a Roma da
fine gennaio con la sua Giuseppina
che poi seppi avrebbe sposato pochi mesi dopo, assisteva silenziosamente da un
palco a tutte le prove e immagino che, pur non intervenendo platealmente, avesse
parecchi suggerimenti da elargire in camera caritatis all’Angelini e al Cencetti.
Era scontato anche che fosse alle prese con la tirchieria quotidiana del sor Cencio
che infatti, dopo la serie di spettacoli e le critiche alle cantanti, pare avesse
assicurato, per l’anno successivo, un risparmio questa volta su tenore e baritono.
L’attesa, quando si
sparse la voce dell’arrivo della nuova opera e del maestro in persona, che aveva
preferito l’Apollo di Roma alla Scala di Milano, era alle stelle. Già prima della
serata inaugurale, la città cantava alcune
arie carpite durante le prove e tutti i maestri dell’orchestra, me compreso, fischiettavano
uscendo dal teatro la tarantella “Fuggi, fuggi per l’orrida via” o l’aria ironica
e divertente “E’ scherzo od è follia”. Lo stesso maestro Angelini, quando l’orario
corrispondeva, nel darci appuntamento cantava stentoreamente ma con ammiccamento:
“Dunque signori aspettovi, incognito, alle tre!”. La
sera della prima il teatro era pieno come un uovo e il botteghino aveva venduto
anche tutti i posti in piedi. L’evento era del resto così straordinario che neanche il funerale del Papa sarebbe riuscito a
smuovere il pubblico dalle poltroncine rosse conquistate a caro prezzo, si trattasse
pure di nobili e cortigiani timorati di Dio. E così, malgrado i risparmi del sor Cencio
e l’assenza di benedizioni ecclesiastiche, il
miracolo si compì. Un pubblico
plaudente, estasiato ed eccitato salutò con un’ovazione il maestro Verdi che ringraziava
con eleganza da un palco, e la caciara terminò solo dopo che il sor Cencio, preoccupato
per il costo delle luminarie, decise di trattenere i cantanti dietro il sipario
dopo l’ennesima chiamata. Come
un raggio di luce, quell’opera scaturita da una mente umana, arrivò a dare a noi
poveri romani, così avviliti e indifferenti alle cose della vita e della storia,
una improvvisa e inattesa sferzata di
vitalità. Tanto forte proprio perché non ricercata e soprattutto non proibita
dal parroco o, peggio, dagli sbirri, così da apparire in tutta la sua forza quasi
eversiva, in una città in cui il diavolo aveva le sembianze di un uomo barbuto
in camicia rossa e i suoi simpatizzanti erano colpevoli di abbracciare “il partito
del disordine” rischiando come minimo la scomunica. Ma
può davvero la musica fare di questi miracoli? Mentre il sor Cencio si fregava
le mani soddisfatto, contando gli scudi che si moltiplicavano nella sua cassa,
sembrò in quel Carnevale del ’59, che qualcosa finalmente fosse arrivato a spezzare
il fosco incantesimo che teneva Roma lontana dal mondo. Del
resto, qualcosa effettivamente si moveva.
Era quello il mese in cui si preparava la Seconda guerra d’Indipendenza,
l’annessione al Piemonte della Lombardia, di Parma (con gioia del maestro Verdi),
della Toscana e delle Romagne, mentre nelle Marche e in Umbria cresceva
nel sangue la volontà di spezzare il dominio papalino. Ma
Roma restava muta e indolente di fronte ai cambiamenti che segnarono un’epoca
e anche i pochi patrioti che non erano in esilio dopo aver assaggiato le catene
di Castel Sant’Angelo o si erano salvati dalle ghigliottine sparse un po’ qui
e un po’ lì, non osavano mettere il naso fuori dalle loro cantine dove, forse,
ancora tentavano coraggiose, quanto inconcludenti
riunioni clandestine. Insomma,
non so bene chi fu e quando, ma già dalla seconda o terza replica in teatro cominciò
a circolare il gioco dell’acrostico “Viva Verdi”, le cui iniziali potevano significare
“Vittorio Emanuele Re d’Italia”. Chi fu ad inventare il gioco, o meglio a scoprire
questa straordinaria coincidenza che aveva qualcosa di esoterico e che per questo
fu attribuita dai più al solito massone, estraneo all’anima della Città santa?
O forse fu un socio dell’Accademia Tiberina,
che faceva il verso a quella della Crusca, e
che si divertiva coi giochi di parole e come un novello Pasquino lanciava da suddito
sberleffi al potere pontificio, rimanendo nell’ombra dell’eroica anonimità? Non
lo sapremo mai. Ma è un fatto che qualche giorno dopo apparve su un muro poco
lontano dalla casa presa in affitto dal maestro Verdi a Campo Marzio, la famosa
scritta. Da lì, misteriosamente così come era nata, si trasferì in un baleno sui
muri di Milano e di Venezia a preannunciare quell’Unità d’Italia che ormai lontana
non era, e ad accompagnare le recite verdiane nei grandi teatri dove ogni volta
si celebrava la volontà d’un popolo. Ma Roma
continuava a dormire e benché avesse tenuto a battesimo l’evviva italiano, qualsiasi bollore evaporò
all’istante. E quando nel ’67 due disgraziati
ci rimisero la testa per aver fatto saltare in aria la caserma degli zuavi, e
Garibaldi era a Mentana in attesa di ben altri evviva, non accadde nulla. Roma
era sempre quella che così tratteggiava il Belli
nel 1833: ‘Na
setta de garganti che rrameggia E vvò ttutto pe fforza e cco li stilli:
Un Papa maganzese che stangheggia, Promettennosce tordi e cce dà ggrilli. 'N'armata
de Todeschi che ttraccheggia E cce vò un occhio a ccarzalli e vvestilli:
Un diluvio de frati che scorreggia E intontissce er Ziggnore co li strilli. Preti
cocciuti ppiù dde tartaruche: Edittoni da facce un focaraccio: Spropositi
ppiù ggrossi che ffiluche: Li
cuadrini serrati a ccatenaccio: Furti, castell'in aria e ffanfaluche:
Eccheve a Roma una commedia a bbraccio. Firmato:
Giovanni Menestrelli Maestro di musica-violinista
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